Senza l'intervento umano, la vegetazione, cioè il complesso delle piante di un territorio considerate in relazione tra loro e nei rapporti con l'ambiente, si sviluppa secondo successioni primarie raggiungendo uno stadio finale detto climax. A questo si arriva gradualmente in natura, partendo da terreni vergini colonizzati da associazioni pioniere che, mediante la produzione di humus, la fissazione di azoto atmosferico, la decomposizione delle componenti minerali del suolo, favoriscono l'insediamento di altri aggruppamenti più complessi ed esigenti, realizzando il massimo sfruttamento possibile dello spazio, della luce e dei nutrienti.
La regione è stata abitata fin da tempi antichissimi e l'uomo, con la sua incessante attività ha abbattuto alberi, ha provocato incendi, ha introdotto e coltivato nuove specie, ha sfalciato le erbe, ha concimato ed ha costruito case incanalando l'evoluzione della vegetazione verso stadi sempre più semplici. Quando il disturbo antropico cessa si può raggiungere un nuovo equilibrio, ma non necessariamente identico a quello preesistente, se i fattori ambientali sono stati irreversibilmente modificati o non hanno avuto tempo sufficiente per ristabilizzarsi. Attraverso la lettura del paesaggio vegetale è possibile ricostruire l'aspetto della vegetazione naturale del territorio (qualora l'uomo non fosse intervenuto a trasformarlo), basandoci su quanto ancora rimane degli aggruppamenti originari e ancor più spesso sulla presenza di particolari elementi strettamenti legati a determinate fasce climatiche.
Dal punto di vista floristico il comprensori comunitario offre una ricchezza molto elevata di specie, circa 900, favorita dalla convergenza di essenze appartenenti alla flora medioeuropea, balcanica, africana e mediterraneo occidentale.
Ricordiamo a tal proposito, che il Lazio vanta 3.000 specie di piante vascolari, quasi la metà di quelle dell'intero Paese, raggiungendo poi livelli molto elevati rispetto alle altre regioni d'Europa. Descriveremo la fisionomia del paesaggio per fasce di vegetazione individuate in senso altitudinale, partendo dalle quote minore verso le maggiori.
Il piano basale del comprensorio della XI Comunita' Montana dovrebbe essere occupato dalla LECCETTA, una forma di vegetazione caratteristica dell'ambiente mediterraneo, che un tempo si estendeva dall'Agro Romano fino a circa 500 m. di quota, ed anche oltre. Il leccio (Quercus ilex) era una pianta divina per i Latini : il mistero racchiuso nelle sue impenetrabili ed oscure foreste incuteva timore. Per secoli i briganti della zona fecero di tali boschi il loro rifugio, certi di trovarvi un sicuro nascondiglio.
Così come dovevano presentarsi una volta, le leccete non esistono praticamente più, essendo i loro spazi attualmente sostituiti da coltivi, pascoli e prati. Sulle piane il paesaggio agrario ha preso il posto delle originarie selve. Ampi campi coltivati a graminacee e leguminose precedono in altitudine, sui fianchi pedemontani, vigneti e frutteti che danno tanta celebrità al territorio. La coltura dell'olivo segue quella della vite e si sostituisce ad essa dove i suoli sono meno ricchi e i pendii più acclivi. L'antico bosco planiziario, con straordinari relitti di remote vegetazioni, si è in parte conservato solo nei luoghi più inaccessibili all'uomo, sui versanti dei valloni o nelle strette e profonde forre scavate dai corsi d'acqua nei tufi quaternari della piana tra Gallicano, Zagarolo e San Vittorino.
Il leccio in forma arborea ha un portamento maestoso, alto fino a 15-20 m, una corona densa e rotondeggiante. Fiorisce in aprile-maggio e matura nell'anno ghiande protette da una cupola a squame brevi, utilizzate come nutrimento per i suini nell'antica tradizione agricola.
Quando le caducifiglie si sono spogliate delle loro fronde nel paesaggio spiccano macchie di un intenso color verde cupo indicatrici della presenza del leccio che è, tra le querce sempreverdi, la specie più diffusa. Ha foglie persistenti, coriacee, con adattamenti atti a sopportare l'aridità del periodo estivo e a diffondersi da un eccessiva traspirazione (sclerofillia). Possiede robuste e lunghe radici capaci di trovare acqua e nutrimento tra le pietre, le rocce e sui dirupi.
Si rivengono, infatti, stazioni di leccio sulle coste scoscese, nei bacini dei laghi, o sugli aridi suoli calcarei dei rilievi prenestini, a monte di Palestrina, dove più individui in forma arbustiva creano una fitta ed intricata macchia. Per avere un'idea della magnificenza di una lecceta si possono ammirare le dimensioni di antichi esemplari ancora presenti nei parchi delle ville o dei conventi, nei giardini comunali e lungo le strade.
Con la chioma perennemente verde questa quercia forma complessi equilibri con le altre specie cui si associa, contenendo ad esse continuamente lo spazio e lasciando filtrare solo poca luce. Di conseguenza lo strato erbaceo sottostante si può sviluppare solo stentatamente, arricchendosi invece nelle radure circostanti prive di alberi, dove in primavera fioriscono anche un gran numero di Orchidaceae dei generi Orchis ed Ophrys.
Il sottobosco della lecceta è caratterizzato dall'abbondanza di lianose, come il caprifoglio (Lonicera implexa), la clematide (Clematis vitalba), l'edera (Hedera helix), il tino (Viburnum tinus), la robbia (Rubia peregrina) e il tamaro (Tamus comunis) che si protendono verso l'alto alla ricerca di un raggio di sole. Tra gli arbusti si rinvengono : il corbezzolo (Arbutus unedo), l'agrifoglio (Ilex aquifolium), il lauro (Laurus nobilis), l'alaterno (Rhamnus alaternus) e lo smilace (Smilax aspera). Più sensibile alle basse temperature di quanto lo siano il castagno o le querce caducifoglie (come la roverella, la farnia ed il cerro), il leccio si mantiene in altitudine generalmente al di sotto di queste essenze arboree, elevandosi talvolta a livelli submontani soltanto quando i fattori orografici e climatici sono favorevoli all'instaurarsi di un microclima più xerotermico.
A conferma di ciò, alle quote maggiori, troviamo stazioni poco estese di leccio, associato ad altre specie, soltanto sulle pareti più soleggiate del Monte Artemisio, Monte Cavo e Monte Tuscolo. Nei valloni, come ad esempio in quel di Tempesta sul lago di Nemi, il fenomeno della così detta inversione nella normale successione dei piani altitudinali della vegetazione è conseguenza della particolare situazione ambientale : il leccio si rinviene in alto rispetto alle latifoglie del bosco misto le quali, sul fondovalle fresco ed umido, trovano il complesso di fattori più idoneo alla loro ecologia.
Nel caso dei fossi dell'Agro Tiburtino Prenestino, con allineamento SE-NO, la peculiare esposizione dei versanti vallivi comporta gradienti di temperatura, umidità e illuminazione che sono responsabili di una dissimetria ecologica : sul lato rivolto a mezzogiorno dominano specie prevalentemente mediterranee come il leccio, o orientali come il carpino (Carpinus orientalis), accompagnate da smilace (Smilax aspera) e fillirea (phillyrea latifoglia), cui si oppongono sull'altro fianco roverella (Quercus pubescens), castagno (Castanea sativa), orniello (Fraxinus ornus) e nocciolo (Corylus avellana), elementi del bosco misto di latifoglie decidue amanti di condizioni climatiche più mesofile.
Tra la vegetazione mediterranea e la successiva submontana del querceto deciduo, si interpongono piccole stazioni di tipologie vegetazionali con caratteristiche orientali, ricche cioè di elementi che oggi hanno la massima diffusione nell'area balcanica, sopravvissute ad antiche vicende geologiche solo qui e in poche altre località italiane per aver trovato condizioni adatte alla loro sopravvivenza. Fra le specie di grande interesse fitogeografico, perché ritenute relitti di antiche forme, sono presenti : il borsolo (Staphylaea pinnata), alberello che con le suev foglie pennate è simile al pistacchio, con semi durissimi utilizzabili per braccialetti, collane e rosari ; e lo storace (Stirax officinalis), testimone dei cambiamenti climatici dell'ultimo quaternario, conservatosi in questo territorio e sui monti Tiburtini.
Talvolta, nell'area pedemontana e sui suoli tufacei si associano altre essenze come l'albero di Giuda (Cercis siliquastrum), il carpino orientale (Carpinus orientalis) e la marruca (Paliurus Spina-Christi), con areale mediterraneo, il cui nome deriva dalla tradizione che vuole che con i suoi rami sia stata intrecciata la corona di spine di Cristo.
Ancora alle quote tipiche del leccio e della roverella, tra 450 m e 550 m, sul versante più soleggiato del Monte Tuscolo, nel Vallone di Tempesta e nei parchi delle ville, esemplari più o meno isolati distrbuiti su tutto il territorio, troviamo il pino domestico (Pinus pinaster) e maestosi, rari individui di pino d'Aaleppo (Pinus halepensis).
Le PINETE sono elementi di grande valore ornamentale, elevate alla celebrità di simboli del paesaggio italico per la loro storia e per la loro bellezza. Si tramanda che i Romani, e forse più anticamente gli Etruschi, abbiano introdotto il pino domestico che qui si è naturalizzato, armonizzandosi tanto bene con il paesaggio. Salendo di quota, nella fascia compresa tra la lecceta e il bosco di latifogliè, si inserisce il BOSCO DI ROVERELLA il quale, in alcuni luoghi, si compenetra ora l'una, ora con l'altra forma di vegetazione.
Tra le querce caducifoglie la roverella (Quercus pubescens) è la specie più resistente all'aridità, prediligendo temperature miti e sole. È un'essenza frugale che si adatta un po' a tutti i terreni e, pur preferendo i suoli calcarei, è diffusa anche su quelli tufacei e silicei delle zone più calde e asciutte del territorio. Esemplari di roverella anche di notevoli dimensioni sono presenti nell'area del Tuscolo, tra cui è famoso quello vetusto intrecciato al cancello di Villa Falconieri a Frascati. Troviamo la roverella tra i 250 m di quota (nel bacino del lago Albano, nei valloni di Grottaferrata, Palestrina, Zagarolo , Gallicano) e gli 800 m di Colle Iano (Rocca di Papa).
Il livello altitudinale del bosco di roverella è tipicamente seguito dalla CERRETA che con il castagno domina la parte superiore dell'orizzonte submediterraneo, cioè la fascia submontana che segna il passaggio al piano montano. Il cerro (Quercus cerris) è un albero che raggiunge grandi dimensioni, fino a 35 m, con frutti contenuti in una cupola emisferica assai caratteristica, con squame lunghe, fibrose e incurvate. Il legno è pregiato e, fino a pochi decenni or sono, era sfruttato per farne doghe di botti e per ricavarne carbone, mentre dalla corteccia si estrae tannino usato per la chiarificazione del vino.
I cerri si adattano a tutti i substrati, purchè siano sufficientemente profondi, rifuggendo quelli decisamente calcarei. Sono sensibili ai geli tardivi e ai freddi prolungati, mediamente esigenti per la luce e la temperatura.
Le condizioni ambientali del territorio della XI Comunità Montana sono quindi favorevoli all'ecologia del cerro ed infatti questa specie arborea si può rinvenire ovunque l'uomo non abbia interferito, ma purtroppo soltanto in individui più o meno isolati. Un bellissimo bosco di cerri e farnie, anche di grandi dimensioni, si è conservato in località Il Cerquone tra i comuni di Rocca di Papa e Rocca Priora.
Salendo ancora di quota fra le ultime propaggini della lecceta, dei querceti xerofili a roverella e di quelli mesofili a cerro, al di sotto del piano del faggio si inserisce il BOSCO MISTO DI LATIFOGLIE, il più diffuso nella regione. Conferisce al paesaggio la massima diversità stagionale nelle forme e nei colori, con un sottobosco ricco di variopinte fioriture primaverili e autunnali, quando le chiome degli alberi sono spoglie e l'assenza di ostacoli lascia penetrare il sole fino allo strato erbaceo.
Probabilmente un tempo le aree appartenenti a tale fascia di vegetazione erano ricoperte da un bosco misto di specie dei generi Quercus, Tilia e Acer, dalle cui iniziali Schmid (1963)ha coniato la sigla Q.T.A.. Oggi la maggior parte di queste è occupata dal castagneto, mentre il Q.T.A. sopravvive solo in alcune limitate zone in cui non è avvenuta la trasformazione, come nei parchi annessi alle ville ed ai conventi, nei bacini dei laghi, sui dirupi, tra le rocce e nei luoghi più inaccessibili o inospitali.
Dal punto di vista floristico, le specie più rappresentative del bosco misto Q.T.A. sono il Cerro (Quercus cerris), la farnia (Quercus robur), la roverella (Quercus pubescens), l'acero campestre (Acer campestre), l'acero napoletano (Acer napolitanum), il tiglio nostrano (Tilia platyphyltos), l'acero d'Ungheria (Acer obtusatum), la capinella (Ostrya carpinifoglia), il corniolo (Cornus mas), l'orniello (Fraxinus ornus), il nocciolo (Corylus avellana).
Anche alle quote più elevate il paesaggio del Vulcano Laziale è dominato dal CASTAGNETO che, favorito dalle caratteristiche edafiche dei Castelli Romani, è la forma di vegetazione più diffusa. Nell'area prenestina del comprensorio se ne riscontra invece la progressiva rarefazione, finchè scompare là dove cambia la litologia dei suoli. Sui Colli Albani il castagno (Castanea sativa) è stato massicciamente introdotto da almeno due secoli per i suoi frutti e per l'utilizzo e la commercializzazione del legno.
Si è affermato ed ha sostituito gli elmenti arborei del bosco misto originario (di cerro, di rovere, di roverella e persino di faggio) sui suoli profondi e acidi di origine vulcanica, dove è molto competitivo. I castagneti di questa area sono prevalentemente puri, monospecifici, periodicamente soggetti a taglio. Il sottobosco, in cui prevalgono il ciclamino (Cyclamen hederifolium), la scilla a due foglie (scilla bifolia), l'asfodelo (Asphodelus albus),l'edera (Hedera helix), il gallio (Gallium odoratum) e l'astragalo (Astragalus glycuphyllos), è povero. Dove non arriva la ceduazione, come in vetta a Monte Cavo, si rinvengono vetusti esmplari di castagno misti a tiglio, acero campestre, cerro, leccio, nocciolo, orniello, agrifoglio, corniolo e biancospino.
Attualmente ha perso molto del suo valore economico e non è improbabile trovare castagneti in abbandono. Proprio in questi luoghi si assiste alla riconquista del territorio da parte di elementi del bosco misto originario che ricolonizza i suoi spazi. Il piano montano inferiore del comprensorio, partendo da circa 800 m di quota, dovrebbe essere occupato dalla FAGGETA. Il faggio (Fagus sylvatica) si è diffuso sulle montagne mediterranee nei periodi postglaciali a clima più fresco e umido. Essendo ormai completamente sostituito dal castagno, permangono locali toponimi, come Maschio delle Faete, Colle dei Faggi e Colle del Favo a testimonisrne il rigoglioso passato.
Si trovano isolati esemplari arborei di faggio nei pressi del fontanile nel Vallone di Tempesta, sul Maschio di Lariano e in vetta a Monte Cavo. In forma arbustiva, subordinato al castagno, si rinviene invece nei versanti più freschi e umidi, esposti a nord, anche a quota 600 m, tra Monte Compatri e Rocca Priora, associato con il carpino bianco (Carpinus betulus), il nocciolo, l'orniello, l'agrifoglio, il tiglio, l'acero fico e la ginestra dei carbonai.
Nell'area del Maschio dell'Artemisio degrada verso i Pratoni del Vivaro e Passo Broscione. Ai margini dei boschi, nelle radure abbandonate dall'attività umana, sulle rocce e sui suoli battuti dal sole i CESPUGLIETI danno luogo a fisionomie direttamente legate al bosco, favorendo in genere la germinazione degli elementi forestali e diventando un aspetto della transizione temporale nel recupero al bosco di aree precedentemente coltivate o utilizzate per il pascolo.
Gli arbusteti sono gli aggruppamenti vegetali più ricchi di piante aromatiche, di olii volatili e di principi medicamentosi. Ricordiamo i dorati e profumatissimi ginestreti a ginestra odorosa (Spartium junceum) e quelli di piante ad abito genistiforme, come la ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius). La prima è una specie tollerante la siccità e l'alcalinità elevata del suolo, cosicchè si afferma sulle pendici calcaree e silicee più calde e soleggiate a tutte le quote del comprensorio. La ginestra dei carbonai è invece una specie che predilige i suoli vulcanici, con ottime capacità colonizzatrici. E' particolarmente abbondante nell'atrio della Molara e nei bacini dei laghi.